“Siate la farfalla gialla che vola sul filo spinato” – Liliana Segre

In occasione della Giornata della Memoria,

desidero condividere il discorso pronunciato da Liliana Segre all’Europarlamento

in occasione dei 75 anni dalla liberazione  del campo di Auschwitz:

 

“Non nascondo l’emozione profonda di entrare in questo Parlamento europeo dopo aver visto all’ingresso le bandiere colorate. Le bandiere colorate di tanti Stati affratellati in questo luogo dove si parla, si discute e ci si guarda negli occhi. Non è stato sempre così. E la giornata del 27 di gennaio è una giornata a volte ripetuta troppo, dando al 27 di gennaio un’importanza

Non è che Auschwitz sia stata liberata quel giorno dall’Armata rossa. E’ molto bella la descrizione che Primo Levi fa nella Tregua di questi quattro soldati russi che aprono i cancelli – senza liberare niente perché i nazisti erano scappati da giorni – e si trovano davanti questo spettacolo incredibile. Incredibile in quel momento ai loro occhi, poi più tardi diventò uno spettacolo incredibile per chi lo volle guardare. Qualcuno non lo vuole guardare neanche adesso, dice che non è vero.

E lo stupore, lo stupore per il male altrui: sono queste le parole straordinarie di Primo Levi. Perché questo stupore per il male altrui nessuno che è stato prigioniero ad Auschwitz l’ha potuto mai dimenticare un secondo della sua vita. Lo stupore perché altre persone, che non sono pazze e non vengono da un mondo lontano ma sono tuoi fratelli europei, hanno pensato per sé.

Io allora avevo 13 anni, ero operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union, fabbrica che c’è tuttora, dove facevamo bossoli per mitragliatrice. Lavoravo nella città di Auschwitz e sapevamo le cose che stavano succedendo a Birkenau dove ero stata fino a pochissimo tempo prima.

Di colpo, dopo che avevamo sentito scoppi lontani, venne il comando immediato dalla fabbrica stessa per quella che fu chiamata la “marcia della morte”. Io non fui liberata il 27 di gennaio dall’Armata rossa. Io facevo parte di quel gruppo di più di 50mila prigionieri ancora in vita, che erano stati obbligati in quelle condizioni fisiche, senza parlare di che cos’erano quelle psichiche, a cominciare quella marcia che durò mesi e di cui si parla pochissimo. La marcia della morte.

Quando parlo nelle scuole da nonna, come parlo da nonna da trent’anni a questa parte, dico che ognuno nella vita deve, una gamba davanti all’altra, non appoggiarsi a nessuno. Perché nella marcia della morte non potevamo appoggiarci al compagno vicino che si trascinava sulla neve con i piedi piagati come noi e che veniva finito dalle guardie della scorta se fosse caduto. Ucciso, nessuno poteva rimanere lì su quelle strade.

Come si fa? Come si fa in quelle condizioni? E’ che la forza della vita è straordinaria. E’ questa che bisogna trasmettere ai giovani di oggi che sono mortificati dalla mancanza di lavoro, mortificati dai vizi che ricevono dai loro genitori molli per cui tutto è concesso. Mentre la vita non è così, la vita poi ti prepara a questa marcia che deve diventare marcia per la vita. E noi non volevamo morire, noi eravamo pazzamente attaccati alla vita qualunque fosse. Per cui, una gamba davanti all’altra, buttarci sui letamai, mangiare qualunque schifezza, qualunque cosa, mangiare la neve dove non era sporcata dal sangue. E non domandarci più nient’altro che andare avanti: camminare camminare.

Era il male altrui: le finestre erano chiuse. Traversammo la Polonia poi la Germania. Abbiamo visto altri lager, altri orrori, altri mali: Ravensbrück, un Jugendlager che si chiamava Jugendlager perché in effetti eravamo giovani, ma sembravamo vecchi. Senso sesso, senza seno, senza età, senza mestruazioni, senza mutande. Non si deve aver paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità a una donna. E’ così.

Ci eravamo abituate ormai a sopravvivere, perché c’era qualcosa dentro di noi che ci diceva avanti, avanti, avanti, avanti, avanti. E giorno dopo giorno, campo dopo campo, io mi ritrovai alla fine del mese di aprile del 1945. Pensate in quella situazione quanto era lontano il 27 di gennaio. Quindi stato fisico debilitato, morte di compagne perdute in quella marcia, rimaste lì senza potersi alzare, non soccorse mai da nessuno. Perché nessuno aprì una finestra, nessuno buttò un pezzo di pane.

C’era la paura. Era la paura che faceva sì che la scelta fosse di pochissimi. Perché non si parla quasi mai di questi straordinari che hanno fatto la scelta. Si dà per scontato che popoli interi siano stati colpevoli, perché non fu solo il popolo tedesco, fu tutta l’Europa occupata dai nazisti: parliamo della Francia, dell’Italia. I nostri vicini di casa, parlo dell’Italia, furono degli aiuti straordinari per i nazisti: ci denunciavano, prendevano possesso del nostro appartamento, del nostro ufficio, anche del cane qualche volta perché era un cane di razza. Il cane era di razza.

Questa parola razza, che ancora la sentiamo dire e per questo dobbiamo combattere questo razzismo, questo razzismo strutturale che c’è ancora. La gente mi chiede: ma come mai ancora si parla di antisemitismo? La gente mi domanda come se io fossi quella che sa perché c’è ancora l’antisemitismo, perché c’è ancora il razzismo. Va bene che sono vecchissima nel mio novantesimo anno di età.

Io credo che il razzismo ci sia sempre stato. Ma non c’era il momento politico per poter tirar fuori l’antisemitismo e il razzismo che sono insiti nell’animo dei poveri di spirito. Sì è così. Poi arrivano i momenti, corsi e ricorsi storici. Arrivano i momenti più adatti. Arrivano i momenti in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile di nuovo far finta di niente, è più facile guardare il proprio cortile: ma è una cosa che non mi interessa, perché mi deve interessare, non mi riguarda. E allora tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno adatto per farsi avanti.

Ora la guerra non si fermò e prima che gli alleati mi liberassero arrivò il primo maggio del 1945, la fine della guerra.

La condizione degli ebrei fu analoga nei paesi occupati, fu analoga di fatto se non di diritto. Eppure gli ebrei tedeschi, ungheresi, italiani si erano battuti nelle guerre per i propri paesi. Ricordo che mio padre era stato ufficiale nella prima guerra mondiale. Quanti ebrei tedeschi si suicidarono perché sentivano di essere stati separati dal resto della nazione. Questa separazione fu dolorosissima. Più ancora che per le leggi, per il fatto che ora era il tuo vicino di casa che ti escludeva.

Io quando furono emanate le leggi razziali ero una bambina e diventai invisibile. E questo effetto durò. Anche dopo la guerra. Ricordo quando a Milano, tra le macerie, incontravo quelle che erano state le mie compagne di scuola che non mi avevano visto più perché ero stata cacciata quando frequentavo la terza elementare. Perché ero stata cacciata? Ero un pericolo così terribile per i fascisti? Per questo decisero che i bambini ebrei di quella piccola comunità degli ebrei italiani (non più di 40 mila persone in tutto il paese, che furono vittime almeno per un terzo della shoah) che era stata assolutamente integrata nella nazione, dovevano diventare invisibili? Queste compagne, incontrate di nuovo dopo 4-5 anni chiedevano: Segre, ma  dove eri andata a finire?

Mi sono sentita sola, anche dopo. Io ero una ragazza ferita, ero una ragazza selvaggia, che non sapeva mangiare perché il coltello e la forchetta dov’ero stata non esistevano più. Per noi mangiare non era “essen”, come si dice in tedesco, ma “fressen” che è la parola che si usa per il mangiare degli animali, delle bestie. Ed io ero diventata bulimica, ero neghittosa, ribelle e come tale ero criticata anche da quelli che mi volevano bene. Non ero più la ragazza borghese che ero stata, con una buona educazione familiare.

È difficile ricordare queste cose e devo dire che da 30 anni io parlo nelle scuole con una difficoltà psichica molto forte, anche se sento che il mio dovere è questo. Sarebbe questo, fino alla morte, poiché io ho visto quei colori, ho sentito quegli odori, ho udito quelle urla. E ho incontrato tante persone in quella babele di lingue. Oggi non posso non ricordare, qui dove tante lingue si incontrano, la difficoltà di comunicare. E però comunicare era importante con le compagne che venivano da tutti i paesi d’Europa occupati dai nazisti. Si poteva farlo solo trovando delle parole comuni perché altrimenti c’era la solitudine assoluta del silenzio. Allora il silenzio derivava dall’isolamento ancestrale delle comunità che non si erano riunite in parlamenti come questo. L’Europa ha ricominciato a parlarsi solo ultimi 75 anni.

Allora si dovevano cercare poche parole per comunicare l’essenziale nelle lingue degli altri. Io per esempio in ungherese ho imparato una sola parola, “kenyér”, che vuol dire “pane”. Era la parola essenziale per non morire di fame, ma indicava anche la sacralità di una cosa allora essenziale per vivere e che viene sprecata oggi senza nemmeno guardare che cosa si butta via.

Io sento che la memoria di quella ragazzina che sono stata a me, che oggi sono una vecchia di 90 anni, non mi dà pace. I ricordi non mi danno pace perché il fatto di essere diventata nonna io, trentadue anni fa, quando è nato il primo dei miei tre nipoti, e oggi essere qui al parlamento europeo in questo momento, sono lo stesso miracolo.

Ma sono io quella ragazzina che ha fatto la marcia della morte, che ha cercato nei letamai qualcosa da mettere in bocca, che ha cercato una parola comune per poter parlare con le altre? Quella ragazzina è un’altra da me e io sono la nonna di me stessa. Quando mi rivolgo ai nipoti se hanno un dispiacere d’amore, o di studio o soffrono per non aver raggiunto un obiettivo che volevano raggiungere sono una nonna amorosa, sono una nonna molto presente, e in quei momenti ringrazio il miracolo che ha fatto diventare nonna una ragazzina che doveva morire.

È una sensazione che non mi abbandona, che provo ogni volta quando ho finito di parlare in una scuola – io parlo a migliaia di ragazzi, due o tremila mila tutti insieme – e compio il mio dovere di portare la mia testimonianza. Parlo di me, di quella ragazzina, magra, debole, disperata, sola.

Oggi io quella ragazzina non la posso più sopportare, proprio perché sono la nonna di me stessa. Sento che se non decido di smettere di parlare e di ritirarmi a ricordare da sola e a godere delle grandi gioie della mia famiglia ritrovata, comunque non potrei continuare, comunque, perché non ce la farò più a ricordare. Anche oggi provo una grande fatica qui con voi, ma ho sentito un grande dovere di accettare questo invito e cogliere questa occasione per ricordare con voi il male altrui, ma per ricordare anche che si può, una gamba davanti all’altra, andare avanti.

Chi andrà a Praga, o c’è già stato, e visiterà, o ha già visitato, il museo dei bambini del Lager di Terezyn sa, o saprà, che in quel campo ai bambini si facevano fare delle recite e c’erano delle matite colorate per disegnare finché tutti, un giorno, furono portati  ad Auschwitz e uccisi per la sola colpa di essere nati (erano troppo piccoli per avere altre colpe). Fra quei bambini ce n’è una, della quale non ricordo il nome, che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati.

Io non avevo allora le matite colorate e forse non avevo, non ho, la fantasia meravigliosa della bambina di Terezyn. Ma spero che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati. Questo è il semplicissimo messaggio, da nonna, che io vorrei lasciare ai miei nipoti e a tutti i miei futuri nipoti ideali: che siano in grado di fare la scelta e con la loro responsabilità e con la loro coscienza essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati”.

– Liliana Segre –

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